Il gilet giallo, la statura immensa, i modi fermi ma gentili, Henrik Loff lo riconosci subito in mezzo alla calca all’antica stazione ferroviaria di Przemisyl, la cittadina di frontiera divenuta il simbolo dell’accoglienza ai profughi ucraini in Polonia. A grandi gesti indica un’enorme jeep parcheggiata poco distante. Elizabeth, parka blu a quadri e guanti di lana grigia, e i suoi due figli, Alexandra, 17 anni, e Max, 14, lo seguono docilmente insieme alle loro due vicine di casa. Sono appena sbarcate in Europa dal treno in provenienza da Leopoli, ex cuore liberty dell’Ucraina, oggi quartier generale della resistenza alla guerra di Vladimir Putin. A casa loro, a Kiev, hanno lasciato la casa, il lavoro, la scuola, «il mio migliore amico», dice Max, e, soprattutto il padre e il fratello maggiore, che si sono uniti alla resistenza. Da oggi, nel gelo assolato che avvolge la Polonia sudorientale, devono reinventarsi una nuova vita.
«Andiamo al centro di raccolta profughi, fa caldo, c’è da mangiare, e poi un pullman vi porterà in Danimarca», dice Loff. All’inizio non capiscono, la barriera linguistica il problema maggiore di ogni volontario. Max, occhi verdi smeraldo che paiono carpire quello che le parole non riescono a comunicare, sale nel bagaglio della gigantesca Toyota vx100. Ma Elizabeth si ferma. Tira fuori il cellulare. Dall’altra parte della linea è il marito. Parlotta velocemente, Alexandra la strattona per un braccio. Ancora un momento. Solleva la testa incorniciata da lunghi riccioli sale e pepe, sorride, di un sorriso tenuto con la colla, statico, duro, impotente. Poi il «no». Henrik scarica i bagagli appena caricati. «Mio marito dice di andare in Germania, non in Danimarca». Alexandra stringe forte il cagnolino che ha in braccio, afferrano i trolley e tutti e cinque si dirigono di nuovo verso la stazione. Cercano un treno per Varsavia, poi un altro per la Germania. Verso quale città? Scuotono la testa. «Non è facile», dice Henrik, un uomo d’affari danese con la passione per la vela: «In pochi minuti devono decidere del loro futuro».
Sono oltre 1200 le donne e i bambini – tanti, tantissimi bambini, bardati come se andassero a sciare e non stessero invece fuggendo dal presente – che attraversano il confine tra Ucraina e Polonia ogni ora, giorno e notte, tirandosi dietro bagagli che sembrano troppo piccoli per prepararsi a un futuro sconosciuto. Ad accoglierli, al valico di frontiera di Medyka, ci sono volontari che vengono da ogni angolo d’Europa, in un clima surreale di festa, nemmeno fosse una gigantesca sagra di paese. La strada sterrata che nel giro di poche centinaia di metri porta dalla dogana ai pullman verso il centro di raccolta profughi è costeggiata da bancarelle di ogni tipo. David Foxpitt e i suoi amici, scesi in camper dalla Scozia, kilt in vita e bandiere tibetane intorno allo stand in segno di pace, offrono pizza fatta sul momento, in un forno improvvisato; un camion di sikh distribuisce crepes e zuppe calde; e poi ancora dolci, te e caffè, giocattoli, caramelle, con le liquirizie nere che si srotolano e i peluche a forma di Puffo. Ma anche assorbenti per le donne e pannolini per i bambini, latte in polvere e schede telefoniche gratuite. Davide Martello, un quarantenne italo-tedesco, è arrivato dalla Baviera con il suo pianoforte a coda e suona senza sosta, all’aperto, cercando di sostituire la gioia al dolore. «Ero a Minneapolis dopo l’uccisione di George Floyd, a Parigi dopo la strage del Bataclan, in Afghanistan», dice sulle note di “Killing me softly”. I bimbi sorridono. Le mamme non capiscono. Qualche famiglia di rom, capelli e pelle scura, è riaccompagnata al confine: scavallano, raccolgono vettovaglie e vestiti usati che nessun altro cerca, poi rientrano in Ucraina. «Non vogliono restare», afferma una volontaria con i capelli biondo paglia, mentre un nugolo di bambini che non arriva al metro sparisce oltre la cancellata verde del confine.
Da Medyka, con autobus di città, pullman, pullmini di fortuna, auto private e camion dei pompieri, chi arriva è portato nel centro di soccorso umanitario allestito dai volontari in un deposito lasciato vuoto dal distributore britannico Tesco l’anno scorso, quando ha venduto la filiale polacca al gruppo danese Salling. «Hanno accettato di metterlo gratuitamente a disposizione per tutto il tempo dell’emergenza umanitaria, elettricità e pulizie comprese», dice, in mimetica davanti all’antica stazione, perfettamente restaurata con i fondi europei, il sindaco di Prezmisyl Wojciech Bakun: «Noi abbiamo messo a disposizione 20 impiegati e due manager per gestire le operazioni, oltre alla raccolta dell’immondizia». Ma il grosso del lavoro è fornito dai volontari in arrivo ogni giorno da ogni angolo dell’Unione. Scendono con mezzi propri, lasciano nome e documento, s’infilano un braccialetto di carta stile albergo all-inclusive e sono immediatamente operativi. Chiunque è ben accetto: chi smista i profughi verso uno dei 27 Paesi d’Europa e chi li accompagna in auto o in pullman. Ogni Paese ha la sua porzione di deposito da attrezzare, e gli ucraini possono scegliere dove e a chi chiedere aiuto. L’Unione europea ha attivato la Direttiva per la protezione temporanea dei profughi, una legge del 2001 finora mai utilizzata, che permette di risiedere in un Paese europeo a scelta per un periodo massimo di tre anni e di cercare un lavoro, richiedere assistenza medica e mandare i figli a scuola.
«Ho 64 posti disponibili e parto tra due ore», dice Giandomenico Marzano, proprietario della società di pullman Dilancar srl, arrivato da Savigliano in provincia di Cuneo, grazie ai fondi raccolti da un’associazione giovanile e donati da imprenditori anonimi. Si è presto reso conto che l’Italia non è tra i Paesi più gettonati. Soltanto chi ha un parente o un amico con cui stare si lascia trasportare. Ma ci sono comuni in Toscana che offrono posti letto e nessuno li vuole occupare. «Può salire sul bus anche chi va in Spagna? Ci lascia a Milano?», chiedono alcuni. Chi deve ricostruirsi una vita da zero corre verso quei Paesi dove sanno di trovare lavoro e corsi di lingua che permettano l’integrazione e magari sostegno per chi non può più lavorare.
Le porte dell’Europa sono spalancate. Almeno questa volta. Ma la risposta concreta è arrivata dal basso, ed è stata corale. «Non so come avremmo fatto senza i volontari», dice, sincero, il sindaco Bakun, lo stesso che qualche giorno prima aveva regalato a Matteo Salvini una maglietta di Putin identica a quella che l’italiano aveva indossato sulla piazza Rossa in onore del leader russo: «Sono oltre mille al giorno, tutti i giorni» a svolgere qualsiasi compito, dalla preparazione dei pasti a quella dei letti. «È un’emergenza umanitaria interamente gestita da volontari», dice soddisfatto Henrik. Gli scout polacchi e la Caritas hanno assunto l’iniziativa di allestire il centro di accoglienza e smistamento nel deposito della Tesco. Ma senza le migliaia di cittadini e aziende che hanno messo a disposizione tempo e risorse “il Grande esodo” sarebbe rimasto impantanata tra le pianure gelide e fangose all’ombra dei Carpazi. «La Polonia non ha un sistema di Protezione civile», spiega Gianni Marchegiani, presidente dell’Isfo e responsabile del raggruppamento operativo emergenze di Roma, qui come volontario: «Sono messi come stavamo noi negli anni Ottanta, prima del terremoto dell’Irpinia. Hanno solo l’esercito e i vigili del Fuoco». Non esiste un corpo nazionale preparato a gestire le emergenze. E nonostante si pavoni a Bruxelles, nella speranza di ottenere quei fondi del Recovery Fund bloccati dal suo abuso strutturale dello stato di diritto, Varsavia per adesso non ha fornito aiuti economici alle sue municipalità in prima linea per l’accoglienza. «Nulla», dice il sindaco: «Gli stiamo dando il tempo di organizzarsi e intervenire». Il Parlamento polacco ha però approvato l’elargizione di una tantum di 62 euro a profugo, un piccolo contributo per le famiglie ospitanti e fondi aggiuntivi per le scuole.
Per il momento la vita quotidiana di Przemisyl non è stata scombussolata, stazione e ex-deposito Tesco a parte. I trasporti pubblici funzionano regolarmente così come le scuole. Certo da queste parti non si erano mai visti così tanti pullman turistici scarichi in arrivo e stracarichi in partenza, centinaia di pullmini con cuori gialli e blu appiccicati ai finestrini e le sigle di mezza Europa come targa; e nemmeno quei lunghi tir scuri, scortati da misteriose auto nere. Un via vai straordinario. Loro, i profughi dagli occhi azzurri e i capelli biondi, arrivano, si fermano qualche ora, forse un giorno o due, poi ripartono.
Ma sono le grandi città che cominciano a dare segni di stanchezza. Gli ucraini che non sanno dove andare e che sperano ancora di rientrare presto a casa si fermano a Cracovia e a Varsavia. Dove la rete cittadina non basta più. Degli oltre due milioni e mezzo di ucraini entrati in Polonia oltre un milione vi si ferma, a dare retta ai dati della Commissione per i rifugiati delle Nazioni Unite. Cracovia, la grande città polacca più vicina al confine, quasi 800mila abitanti, sta ospitando circa 150mila profughi: «Stiamo perdendo la capacità di fare posto ad altri», ha scritto il sindaco Jecek Majchrowski su Facebook, «senza compromettere il funzionamento della città». Un allarme simile arriva dal sindaco di Varsavia.
La straordinaria accoglienza che i polacchi hanno esteso ai profughi ha sorpreso mezza Europa, istituzioni comprese. Soltanto due mesi fa l’esercito polacco aveva impedito ai profughi iracheni in arrivo dalla Bielorussia di entrare, colpendoli con i violenti getti degli idranti ad una temperatura inferiore allo zero, nell’indifferenza della popolazione generale. E durante la grande crisi migratoria del 2015-2016 è stato il governo polacco a non consentire l’ingresso dei profughi siriani sul proprio territorio: se nell’Unione non abbiamo ancora un trattato sulla gestione e ripartizione dei flussi migratori è per la netta opposizione polacca e ungherese. Varsavia ha sempre rifiutato di essere solidale in tema di accoglienza. «Questa volta è diverso», dice Bakun, un politico di estrema destra che apparteneva al movimento politico Kuki15, contrario agli immigrati, ucraini compresi, per impedire il cui arrivo avrebbe voluto un muro d’ispirazione trumpiana: «Loro sono veri rifugiati perché confinano con noi e adesso, a differenza di prima, sono in guerra e noi siamo il Paese più vicino. Abbiamo il dovere di aiutarli».
Che a cambiare sia stata la situazione, la politica o la popolazione, spaventata dalla minaccia russa, non è ancora chiaro. Così come non chiaro è il comportamento del governo polacco nei prossimi mesi, quando le conseguenze della guerra da emergenza diventeranno quotidianità. Dolorosa e ingombrante. L’unica certezza è che con il passare dei giorni e dei bombardamenti sarà sempre più difficile tornare indietro. «Alla fine non ci sarà più bisogno di farci entrare in Europa. Siamo già fisicamente in Europa», sorride amaramente Elizabeth, prima di salire sul treno per Cracovia delle 18:03.