Negli ultimi anni le immagini sulle migrazioni sono proliferate e diventate sempre più pervasive nei media e nei discorsi pubblici. Tali rappresentazioni hanno avuto un grande impatto anche nel ridefinire la scena politica europea. Intorno alle migrazioni si è prodotta una specifica cultura visuale, quella che De Genova sintetizza nel concetto di “spettacolo della frontiera”. La frontiera è una messa in scena che costruisce e conferma il potere dello Stato, attraverso la propagazione istantanea di discorsi e di immagini pubbliche sui migranti. Tali immagini hanno alimentato quei processi di de-umanizzazione, criminalizzazione e securitizzazione propri dei regimi di mobilità contemporanei. Nonostante questa sovrapproduzione di immagini, gli studiosi di migrazioni solo recentemente hanno sottolineato la necessità di riflettere sull’utilizzo di materiale visuale nell’ambito delle loro ricerche, sugli aspetti etici, sulle implicazioni teoriche e su quelle metodologiche.
La realtà italiana si distingue nel quadro europeo per il ritardo che accusa tanto nella realizzazione e circolazione di prodotti alternativi rispetto alle narrazioni dominanti, quanto nel dibattito scientifico intorno a questi temi (cfr., per esempio, A. Angelone, Italian Political Cinema: Public Life, Imaginary, and Identity in Contemporary Italian Film, in Italian Documentaries and Immigration, a cura di G. Lombardi e C. Uva, Peter Lang, 2016). Le ragioni sono molteplici e vanno ricercate nell’intreccio tra politiche culturali, politiche della conoscenza e specifiche tradizioni accademiche. Un’attenzione comparativa, tanto alla produzione cinematografica quanto al dibattito scientifico, permette dunque di aggiornare anche la discussione in Italia su questi temi.
In queste righe prenderò in considerazione la produzione documentaristica internazionale, basandomi sull’esperienza maturata con l’organizzazione della rassegna Crocevia di sguardi, iniziata nel 2004 e tuttora in corso, oltreché con alcune esperienze produttive legate a progetti di ricerca internazionali, come Il mio posto è qui? di Andrea Fantino.
Nel considerare il rapporto tra cinema documentario e migrazioni è necessario problematizzare lo statuto di verità che spesso viene attribuito a questo genere cinematografico
Nel considerare il rapporto tra cinema documentario e migrazioni, è necessario problematizzare lo statuto di verità che spesso viene attribuito a questo genere cinematografico. Il prodotto visuale è sempre frutto di un intervento creativo. L’inganno della trasparenza ha avuto effetti essenzializzanti, producendo un’astratta e generica figura dei migranti. Consapevoli dell’ineludibile mediazione operata dalla macchina da presa, riconosciamo che ogni documentario è frutto di un posizionamento e che vi è sempre una relazione di co-costruzione tra le pratiche visuali e le culture visuali di cui i registi, i soggetti rappresentati e i pubblici sono espressione.
Riprendendo le categorie del critico Henrik Juel, ho identificato una serie di funzioni che permettono al documentario di problematizzare lo sguardo dominante sulle migrazioni: informativa, etica, illuminante, storicizzante e partecipativa.
La prima funzione è quella informativa. Vi sono documentari che offrono informazioni su eventi e circostanze totalmente ignorate dall’opinione pubblica. Alcuni di questi lavori sono stati in grado di sollevare un dibattito così forte da produrre perfino modifiche legislative. È il caso di Vol Spécial, l’incredibile documentario di Fernand Melgar sui centri di detenzione amministrativa per irregolari in Svizzera, in seguito al quale è stata rivista la legge sulle espulsioni dal Paese, vietando l’adozione della contenzione fisica violenta durante i rimpatri.
Una seconda funzione è quella illuminante. Il documentario getta una luce nuova su dettagli trascurati, e permette agli spettatori di essere visivamente ispirati, attivando i meccanismi del ricordo e mettendo in discussione categorie date per scontate. Revision di Philip Scheffner è un lavoro di natura indiziaria che presenta, a distanza di anni, la vicenda di due migranti rom uccisi da alcuni cacciatori al confine tra Polonia e Germania. La ricostruzione cinematografica diventa riflessione profonda sul valore della testimonianza ed esplorazione delle potenzialità non solo estetiche, ma anche politiche del cinema.
La terza funzione è quella etica, in quanto il documentario può contrastare i processi di disumanizzazione che caratterizzano molta comunicazione visuale sulle migrazioni. Lo spettatore non è di fronte a una sofferenza distante, ma viene mosso a identificarsi empaticamente con l’esperienza dei protagonisti. In Imagining Emanuel di Thomas Østbye, un giovane liberiano, ripreso di spalle, racconta il limbo nel quale vive da anni, confinato in un centro di espulsione in Norvegia poiché le autorità non credono all’identità da lui dichiarata. In Spuren, Aysun Bademsoy, attraverso le testimonianze dei parenti delle vittime di omicidi xenofobi in Germania, fa emergere le colpe non chiarite delle istituzioni e le richieste ancora insoddisfatte di verità e giustizia.
Altri documentari ricoprono una funzione storicizzante, in quanto restituiscono una forma e un’identità storica a soggetti che, ripresi nella loro corporeità, sono posti in relazione con specifici spazi fisici e sociali. Nel documentario In Jackson Heights Frederick Wiseman immerge lo spettatore nella quotidianità di un quartiere del Queens a New York, uno dei luoghi etnicamente e culturalmente più eterogenei al mondo. In A world not ours Mahdi Fleifel, grazie a video di repertorio, immagini e interviste ai familiari, racconta la vita di tre generazioni ad Ain el-Helweh, un campo profughi nel Sud del Libano, in cui lui stesso ha passato l’infanzia.
Vi è infine la funzione partecipativa. Le immagini documentarie possono restituire agency ai migranti, riequilibrando i ruoli di potere tra i diversi attori del processo creativo. Alcuni film sono il frutto di un’esplicita co-costruzione tra regista e protagonisti. Als Paul über das Meer kam di Jakob Preuss è il racconto in presa diretta della profonda amicizia e alleanza narrativa tra il regista e Paul, un giovane camerunese, dal loro primo incontro ai confini dell’Europa fino alla comune vita a Berlino. In And-Ek Ghes, seguito ideale del già menzionato Revision, la dimensione di co-autorialità è ancora più esplicita, poiché Scheffner fornisce a Colorado Velcu, suo amico rom, una telecamera per filmare la sua quotidianità tra Germania, Spagna e Romania. Anche Il mio posto è qui? di Andrea Fantino, nasce da un processo partecipativo che mi ha visto coinvolto come ricercatore insieme a due colleghi, al regista e ai sei protagonisti del documentario, richiedenti asilo e rifugiati in diverse località italiane.
Als Paul über das Meer kam di Jakob Preuss racconta della profonda amicizia e alleanza narrativa tra il regista e il giovane camerunense Paul, dal loro primo incontro fino alla comune vita a Berlino
La funzione partecipativa è collegata alla decolonizzazione del pensiero, ovvero alla decostruzione dei meccanismi di razzializzazione e culturalizzazione presenti in molti Paesi d’immigrazione. Tale decolonizzazione emerge quando i registi, in quanto migranti o cittadini del Sud globale, hanno vissuto in prima persona processi di esclusione culturale e simbolica. In Becoming Black, Ines Johnson-Spain, figlia di madre tedesca e padre togolese, condivide con gli spettatori ricordi d’infanzia dolorosi e una cultura di rifiuto e negazione da parte della società tedesca verso gli afrodiscendenti come lei. In Europe, based on a true story il regista ruandese Kivu Ruhorahoza approda in Gran Bretagna per realizzare un film di fiction su un immigrato africano senza documenti. Il racconto documentaristico sulla realizzazione di questo film si interseca alle riprese delle manifestazioni razziste anti-immigrati, nel clima sempre più ostile promosso dalle politiche del Partito conservatore. Il film di Ruhorahoza non denuncia solo la condizione dei migranti in Occidente, ma critica anche le politiche culturali neocoloniali in Africa e l’egemonia di uno sguardo eurocentrico di cui tali politiche sono espressione.
Il quadro che emerge da tutti questi lavori è dunque sfaccettato, in continua evoluzione e intrinsecamente plurale. Rispondendo a diverse funzioni i documentari aiutano a ripensare criticamente l’immagine che l’Occidente ha creato dei migranti, smascherando i dispositivi visuali con i quali li ha esclusi dalla costruzione di una comune identità collettiva.